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La psicologia del terrorismo

Il terrorismo, follia dei nostri giorni?

Liberamente tratto da:

Pies RW. Are Terrorists, By Definition, Psychotic? Medscape. Dec 16, 2015

 

Quando il comportamento di qualcuno si rende estremamente violento e aggressivo, a ciascuno di noi può venire naturale pensare che costui sia “pazzo”, “malato di mente”. Allo stesso modo, quando si assiste al comportamento atroce degli affiliati dell’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria) attraverso i media, il dubbio che può sorgere è che essi siano “psicotici” o profondamente malati. Sembra tuttavia che le prove di una simile nozione intuitiva siano in realtà poche, mentre la ricerca scientifica diretta a individuare le cause del terrorismo rivolge la sua attenzione a fattori diversi dalla malattia mentale.

La stessa definizione di “terrorismo” è ampiamente dibattuta. Come indicano gli studi del Prof. Jeff Victoroff, che opera presso la University of Southern California, Keck School of Medicine a Torrance, California, ci sono quasi tante definizioni quanti sono gli esperti dell’argomento. Inoltre, ogni tentativo di descrivere “la mente del terrorista” ha portato a descrivere l’ampio spettro di variegate menti di terroristi. Nondimeno, se si concorda sul fatto che i terroristi siano persone che usano la violenza su civili allo scopo di promuovere un obiettivo politico, psicologico o ideologico, potremmo cominciare a esplorare un particolare assetto mentale condiviso da specifici tipi di terroristi. Ad esempio, il Prof. Jerrold Post, medico e docente di Psichiatria, Psicologia Politica e Affari Internazionali alla Elliott School of International Affairs a Washington, DC, distingue tra “terrorismo nazionalista-separatista” (ad esempio quello dell’IRA, Irish Republican Army) e “terrorismo religioso-estremista”, di cui un sottotipo è rappresentato dal “terrorismo suicida” al quale abbiamo assistito recentemente a Parigi.

Nel suo libro, “The Mind of Terrorist” (La Mente del Terrorista), il Prof. Post osserva come negli ultimi anni la maggioranza dei terroristi di matrice religioso-estremista sia cresciuta in una sorta di cultura del martirio. Al momento in cui i volontari afferiscono a una cellula terrorista, essi necessitano di una indottrinazione minima, mentre richiedono un addestramento tecnico. In effetti, anche diversi leader religiosi in certi Paesi del Medio Oriente hanno ridefinito il bombardamento suicida come un’operazione di martirio, che si ritiene apprezzabile come il più elevato livello di jihad. Questo meccanismo promuove fortemente lo sviluppo di azioni terroristiche. Si può considerare tutto ciò una forma di “malessere culturale”, che tuttavia non può essere definito alla stregua di una “malattia mentale”.

Resta certamente difficile, invece, spiegare la presenza di giovani occidentali a riempire le fila dell’ISIS. Non vi è molta ricerca scientifica riguardo all’assetto mentale di questi soggetti, anche se un articolo recente uscito su Psychiatric Times cerca di fare un po’ di luce sull’argomento. Il Dr. Omar Sultan Haque e i suoi colleghi si interrogano appunto su cosa spinga dei giovani occidentali dotati di una situazione economica stabile, indifferentemente non musulmani o musulmani, a lasciare le loro famiglie, i loro amici e il loro ambiente culturale per imbarcarsi verso un incerto futuro, unendosi a una organizzazione terroristica come l’ISIS.

Questi autori escludono la povertà o la fede religiosa come fattori principali, notando che la grande maggioranza dei cinquanta milioni di musulmani occidentali non si unisce al terrorismo. Infatti, anche tra quelli che hanno credenze islamiche radicali, solo una parte assolutamente minima agisce in base a tali convinzioni e mette in atto gesti di terrore o aderisce a una organizzazione. Il Dr. Hacque conclude che il problema sia psicologico, per quanto non definibile una malattia mentale a tutti gli effetti. Secondo gli autori l’ISIS fornirebbe una sorta di fast food esistenziale, e per alcuni tra i giovani occidentali più affamati di valori spirituali rappresenterebbe una tavola imbandita e subito disponibile nel bel mezzo della landa desertica che percepiscono essere la loro esistenza. Quelli che si uniscono all’ISIS non sono dunque i così detti psicopatici o quelli che hanno subito il lavaggio del cervello, ma giovani qualunque in una fase di transizione sociale, spesso un po’ emarginati nella società o in una crisi di identità.

Lungi dall’essere una giustificazione per i loro atroci comportamenti, la comprensione dell’assetto mentale di queste persone rappresenta una via pacifica per la prevenzione di simili condotte, o almeno è ciò che si auspica. Se si potessero identificare precocemente i giovani così deprivati spiritualmente, prima che fossero coinvolti all’interno di gruppi estremisti radicali, si potrebbe tentare di deviare da una simile evoluzione comportamentale. Purtroppo a oggi, come chiaramente espresso in un articolo di Greg Miller e Souad Mekhennet uscito sul Washington Post, non è facile contrastare l’efficace macchina propagandistica messa in piedi dall’Islamic State. È stata infatti istituita una vera e propria armata costituita da personale addetto alle comunicazioni mediatiche, che produce video su vasta scala e raggiunge un pubblico molto esteso, pressoché globale. D’altra parte il Dipartimento di Stato degli USA, nonostante grandi sforzi e un programma specifico, ha avuto scarso successo nel contrastare questa propaganda. Il motivo potrebbe risiedere proprio nel fatto che tale programma si è servito delle immagini violente prodotte dall’ISIS stesso.

Dunque, se i Paesi Occidentali volessero difendersi più efficacemente da simili aggressioni, forse non dovrebbero limitarsi a incursioni militari e lancio di droni. Occorrerebbe piuttosto colpire il sistema di credenze di coloro che sono immersi nell’estremismo religioso razionalizzato. Inoltre, i genitori, gli insegnanti e i rappresentanti di tutte le fedi religiose dovrebbero concentrarsi e affiancare il più possibile i giovani che mostrano i primi segni di estremismo.

Recentemente, Alex P. Schmid, ricercatore presso l’International Counter-Terrorism Centre de L’Aia, ha prodotto e proposto una dettagliata “contro-narrativa” rispetto a quella formulata dall’ISIS e da altri gruppi violenti. Schmid ha individuato una dozzina di tematiche proposte dalle fazioni terroristiche e dall’ISIS in particolare e ha predisposto argomenti contrari; ad esempio, egli invoca il precetto islamico per il quale è proibito nell’Islam uccidere un innocente. L’autore invoca la necessità che simili insegnamenti siano distribuiti nel modo più esteso possibile e che persone di fede islamica siano il più possibile coinvolte nella redazione e diffusione di tali contenuti, proprio allo scopo di prevenire pacificamente la radicalizzazione dei conflitti e le reazioni violente.

Forse dunque attraverso questi e simili sforzi educativi riusciremo a raggiungere quei giovani affamati di valori esistenziali che vedono il terrorismo come un attraente fast food alla loro portata di mano.

Bibliografia:

  1. Victoroff J. The mind of the terrorist: a review and critique of psychological approaches. J Conflict Resolution. 2005;49:3-42.
  2. Post JM. The Mind of the Terrorist: The Psychology of Terrorism from the IRA to al-Qaeda. London, UK: St. Martin’s Griffin; 2008.
  3. Haque OS, Choi J, Phillips T, Bursztaijn HJ. Why are young Westerners drawn to terrorist organizations like ISIS? Psychiatric Times. September 10, 2015.
  4. Miller G, Mekhennet S. Inside the surreal world of the Islamic State’s propaganda machine. Washington Post. November 20, 2015
  5. Schmid AP. Challenging the Narrative of the “Islamic State.” ICCT Research Paper. June 2015.

 

Dr. Marzio Maglietta

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