Centro Mindfulness Firenze
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Mindful Music Therapy

Mindful Music Therapy

La musica e l’importanza del senso di sicurezza nella pratica mindfulness

Una spiegazione neurofisiologica dal punto di vista della Teoria Polivagale

Anna Sofia Paryla

 

 

 

 

“Prendimi per mano

Eccomi! Sono io, la tua paura, la tua rabbia, la tua tristezza.

Non sono qui per spaventarti o per infuriarti o per deprimerti.

Lo so, è doloroso quando mi faccio sentire.

Tutto il corpo si irrigidisce, si infiamma

oppure si affloscia e, talvolta, si spegne.

Sono come un fulmine a ciel sereno,

brucio nel tuo petto fino a farlo quasi esplodere.

Opprimo la tua mente con il mio velo buio e freddo.

Scusami, ma è il mio unico modo per poterti parlare.

Ti devo parlare!

Ho bisogno di essere ascoltato,

porto messaggi importanti con me.

So che mi chiami “mostro”, ma credimi, non lo sono.

Sono solo un bambino, mi hai creato tu molto tempo fa.

Quando sei stato ferito, quando hai avuto paura di non essere amato,

quando non potevi esprimere la tua rabbia

E quando eri convinto di deludere gli altri solo perché eri te stesso.

È così che sono nato, ti sei solo scordato di me.

Ma io sono sempre qui.

Ti prego, non mi scacciare e non mi ignorare.

Ascoltami. Accoglimi. Abbracciami e accettami.

Vedrai che in questo modo crescerò, imparerò e mi trasformerò.

Sono il tuo bambino. Prendimi per mano.” (Anna Sofia Paryla)

 

 

 

 

 

Quale ruolo ricopre la musica nella nostra vita?

L’udito si sviluppa nell’essere umano intorno alla diciottesima settimana di gestazione e sarà l’ultimo dei cinque sensi a morire a fine vita. È stato dimostrato che le ultime informazioni provenienti dall’esterno ad essere elaborate dal cervello, riguardano proprio gli stimoli sonori (Blundon, Gallagher, 2020).

I suoni e, nella loro forma più evoluta, la musica accompagnano una persona dal principio della sua esistenza, momento dopo momento, lungo l’intero arco della propria vita. Già in utero il bambino si trova esposto ai rumori del corpo della madre, come alla sua voce, al suo battito cardiaco, ai suoi movimenti intestinali, al fruscio della circolazione sanguigna che collega l’organismo materno a quello del bambino, come anche a tutti gli altri suoni provenienti dall’ambiente esterno (Benenzon, Casiglio, D’Ulisse, 2005). Dalla nascita in poi il paesaggio sonoro si arricchirà con ogni esperienza che la persona farà, a partire dalla percezione della propria voce durante il primo pianto al riconoscimento del timbro materno, dai suoni circostanti familiari ed estranei al ritmo del proprio respiro (Siegel, 2013).

I suoni e le vocalizzazioni rappresentano il primo mezzo di comunicazione e appartengono a quel repertorio di indizi e di comportamenti che promuovono il coinvolgimento sociale dal quale dipende la sopravvivenza di ogni mammifero (Paanksepp, 2014). La musica viene definita “la più pura delle espressioni” e raggiunge una connessione diretta con le nostre parti emotive, sia quando essa viene suonata sia quando viene ascoltata (Siegel, 2013). Possiamo sentirci attratti da alcuni suoni o brani piuttosto che da altri. Cerchiamo la musica quando sentiamo il bisogno di scaricarci e sappiamo che essa è in grado di evocare ricordi, anche remoti. I suoni e la musica fanno quindi intimamente parte della nostra natura, anche se non sempre ne siamo pienamente consapevoli.

 

Il ruolo fondamentale della sicurezza

Un neonato che piange non possiede ancora le risorse per calmarsi da solo e regolare la tempesta emozionale che lo travolge. Nel momento in cui sentirà il calore del corpo di sua madre, il contenimento delle sue braccia e la prosodia della sua voce, il bambino inizierà a calmarsi. Il suo sistema nervoso avverte il funzionamento rilassato di quello materno e la sua frequenza cardiaca si sintonizza con quella della madre.

 

Di riflesso, lo stato rilassato del neonato calma, a sua volta, lo stato fisiologico della madre ed entrambi vivono un’esperienza di profonda fiducia in un equilibrio neurofisiologico di co-regolazione emotiva (Siegel, 2013, Porges, 2014).

Abbiamo bisogno di sentirci al sicuro per crescere in salute durante l’infanzia, per nutrirci, per riuscire a dormire, per poterci riprodurre, per essere creativi ed evolverci spiritualmente. Al fine di acquisire il senso di sicurezza è necessario percepire la vicinanza con le persone di cui ci possiamo fidare. All’inizio della vita, quando dipendiamo dai nostri caregiver, questa vicinanza è caratterizzata soprattutto da contatto fisico, il quale, se gestito con empatia, potrà promuovere un attaccamento ovvero, una relazione basata sulla sensazione di sicurezza. Questa base sicura sostiene il bambino nel suo percorso di crescita promuovendo la possibilità di diventare un adulto in grado vivere la propria vita in modo soddisfacente (Siegel, 2013).

Il nostro sistema nervoso autonomo (quella parte associata al funzionamento degli organi viscerali) riesce a rilevare indizi provenienti dall’ambiente, i quali, in un circuito di feedback bidirezionale con determinate aree cerebrali, preparano l’organismo a rispondere, o attraverso l’innesco dei suoi sistemi di difesa oppure con l’attivazione di comportamenti di avvicinamento. Questo meccanismo viene definito neurocezione, un termine coniato dal neurofisiologo statunitense Stephen W. Porges, padre della Teoria Polivagale[1]. Tale definizione vuole sottolineare il carattere non consapevole di valutazione degli indizi che innescano la neurocezione, sebbene percepiamo  in modo consapevole il cambiamento fisiologico (ossia, l’interocezione), il quale scatena il nostro vissuto psicologico e ne determina il comportamento. Le caratteristiche dell’ambiente che risultano rassicuranti e gradevoli per alcuni potrebbero esser inquietanti e spaventose per altri (Porges, 2014).

Quello che distingue il nostro sistema nervoso autonomo da quello degli antenati rettili ormai estinti, è proprio l’evoluzione della sua capacità di riconoscere quelle informazioni che segnalano quando l’avvicinamento di un altro conspecifico, non solo si presenta come sicuro, ma si rivela addirittura necessario. Questa capacità viene mediata dalla nuova branca ventrale del nervo Vago[2] che è filogeneticamente più recente rispetto alla sua via dorsale, la quale media il più antico sistema di difesa[3] tutt’ora condiviso con i rettili da cui ci siamo evoluti. Il circuito ventro-vagale è composto primariamente da fibre nervose mielinizzate presenti solo nei mammiferi, infatti sono quest’ultimi a manifestare il bisogno di vicinanza, così fondamentale per la sensazione di sicurezza e quindi la sopravvivenza (Porges, 2018).

In stati di sicurezza, il Vago ventrale e il sistema di coinvolgimento sociale (l’avvicinamento) che vi è associato, stanno funzionando in maniera ideale, il sistema nervoso autonomo supporta la salute, la crescita e il recuperco delle energie. Durante questo “stato ventro-vagale” vi è un equilibrio neurofisiologico ottimale tra il sistema nervoso simpatico e le vie dorso-vagali. In stati di insicurezza invece, la funzionalità del Vago ventrale è ridotta o assente e il sistema nervoso autonomo è ottimizzato per supportare le attività di difesa e non il benessere (Porges 2014).

Nell’essere umano il desiderio di stare insieme acquisisce ovviamente anche un’importante valenza cognitiva oltre a quella istintiva, questi due fattori sono intrinsecamente connessi.

 

Quali effetti innesca la musica nel corpo di una persona?

Perché la ninna nanna cantata da una madre può calmare il pianto del suo bambino e facilitare il passaggio da uno stato di veglia e agitazione al sonno? Perché una voce amica è in grado di darci conforto? Per quale motivo un brano può avere il potere di attivarci e un altro quello di rilassarci? Esiste un circuito neurale, mediato dalle vie ventro-vagali, che collega determinate strutture (come l’orecchio medio, i muscoli striati del volto e del collo, la laringe e la faringe) con gli organi viscerali sopradiaframmatici (ad esempio il cuore e i bronchi). Tale connessione determina i citati comportamenti di coinvolgimento sociale e viene definita complesso ventro-vagale o anche circuito viso-cuore dato che l’attività del primo innesca risposte nel secondo e viceversa (Porges, 2014).

Sappiamo che i suoni sono caratterizzati da varie bande di frequenza, le quali non solo producono uno specifico timbro ma ne determinano anche la tonalità. La stimolazione sonora delle strutture nell’orecchio medio innesca risposte a livello viscerale, influenzando la variabilità della frequenza cardiaca. In soggetti con un buon tono vagale, il timpano si tende in modo tale da favorire il passaggio delle frequenze alte rispetto a quelle basse, consentendogli di estrapolare la voce umana dai rumori di sottofondo. Infatti, la musica oppure la voce umana, ricca di alte frequenze e con una vasta variabilità nella modulazione (la melodia o la prosodia) rappresenta uno degli stimoli più potenti nel disinnescare il sistema di difesa in cambio all’attivazione del circuito viso-cuore, calmando così la frequenza cardiaca e inducendo nella persona un senso di sicurezza. Si può notare come una persona che si sente al sicuro esprime, a sua volta,  variabilità prosodica o melodica nella propria voce mentre parla o canta, associata ad un’altrettanto ricca variabilità nelle espressioni emotive del viso (Porges, 2018).

Al contrario, frequenze basse, presenti nei suoni gravi e associate alla predazione, possono innescare risposte difensive (a livello simpatico oppure dorsovagale) le quali inibiscono la sensazione di sicurezza, bloccando in questo modo i comportamenti di ingaggio sociale. Basti pensare a rumori spaventosi oppure associati ad eventi traumatici. A livello più rappresentazionale si può notare il modo in cui i compositori di musica classica scrivono le loro opere, accompagnando scene minacciose con suoni gravi e poveri nella modulazione. I momenti d’amore, invece, vengono spesso associati alla melodia di violini o altri strumenti ad alta frequenza (Porges 2014).

Nei casi di iperacusia, ad esempio nel disturbo post-traumatico da stress oppure in soggetti con autismo, la membrana del timpano, all’interno dell’orecchio medio, non risulta tonica. Similmente allo strato di pelle poco tesa di un tamburo che rende il suono più grave, anche la scarsa tonicità  del timpano umano facilita il passaggio di basse frequenze. Questo rende difficile estrapolare la voce umana dallo sfondo, ostacolando in questo modo il sistema di coinvolgimento sociale. Infatti si può notare come persone con disturbi d’ansia, con una storia di traumi oppure con depressione, esprimono povertà di prosodia nella propria voce, tendenza al ritiro e scarsa espressione emotiva, soprattutto nella parte superiore del viso. Una simile risposta dipende dall’inibizione del circuito viso-cuore da parte dei sistemi di difesa, mediati dalle vie simpatiche o dorsovagali (Porges, 2018).

 

Il ruolo della mindfulness nella riconnessione con il proprio corpo

«Cartesio afferma “Je pense donc je suis”, che tradotto significa “penso, dunque sono”. Tuttavia, immaginiamo le conseguenze se Cartesio avesse formulato la frase “Je me sens donc je suis” o “sento, dunque sono”. » (Porges, 2018). Il termine mindfulness significa “consapevolezza” ed è proprio quest’attitudine di apertura verso la comprensione del significato connesso con le risposte del nostro corpo a essere così determinante durante un processo di trasformazione. Quando l’organismo reagisce con tachicardia, fiato corto e l’irresistibile voglia di scappare durante un attacco di panico, non vuole fare altro che difenderci da una minaccia. Quando avvertiamo la sensazione di svenire da un momento all’altro insieme al bisogno di ritirarci dal mondo sociale l’obiettivo è solamente quello di proteggerci dal dolore di un evento traumatico. Spesso sappiamo che le risposte di fronte alla sensazione di minaccia o di pericolo di vita, nel momento in cui viviamo un episodio di ansia o di panico, non siano adeguate, sebbene in passato potevano essere state adattive. Ma spesso, invece, non sappiamo che la nostra storia ha conservato i contenuti di esperienze traumatiche, avverse o semplicemente di ripetuto disagio, a livello implicito. La mancata integrazione degli eventi passati nella nostra memoria autobiografica esplicita rende questi vissuti così difficili da riconoscere, da verbalizzare e infine da elaborare (Ogden, 2016, Siegel, 2013).

Quando una persona si apre ad un percorso di mindfulness, imparerà a         comprendere come i contenuti della sua storia siano inscritti nel proprio corpo, a partire dal respiro, dal carattere della sua voce, dalla postura, dalle sensazioni corporee intrusive, dal modo di interpretare il mondo e di gestire le proprie relazioni interpersonali (Ogden, 2016). La memoria implicita coinvolge quindi i modelli mentali che filtrano le nostre percezioni e influenzano i nostri comportamenti automatici, rendendoli poco flessibili. Questa presa di coscienza rappresenta il primo passo verso il cambiamento. Dovremmo imparare a celebrare le reazioni del nostro corpo invece di ignorarle o di rifiutarle, per quanto difficili esse ci possano rendere il funzionamento durante la vita quotidiana (Siegel, 2013, Porges, 2018).

Quando l’elaborazione di contenuti dolorosi, a causa di meccanismi dissociativi, non può avvenire in direzione top-down (dal ragionamento cognitivo alla modifica del disagio), dovrà invertirsi la rotta in senso bottom-up, partendo dall’osservazione non giudicante delle proprie sensazioni somato-sensoriali e degli stati mentali evocati insieme ad essi, per arrivare alla comprensione razionale dei loro significati. Durante questo processo avvengono preziosi meccanismi di accoglienza e di accettazione i quali, di per sé, rendono già possibile una trasformazione del disagio. (Betz 2016, Ogden, 2016). Tuttavia è importante riconoscere che possediamo sia strategie bottom-up che top-down, quest’ultime ci consentono di utilizzare le funzioni cognitive per ristrutturarci e aiutarci a funzionare, anche se possiamo aver fatto esperienza di traumi o perturbazioni delle nostre normali traiettorie di sviluppo (Porges, 2018)

 

La musica come strumento per praticare la mindfulness.

La musica inserita in un contesto di richiesta di aiuto perde la sua connotazione di semplice mezzo per il benessere e acquisisce le caratteristiche di un vero e proprio strumento terapeutico che dev’essere condotto da un musicoterapeuta  qualificato.

Alla luce di quanto detto finora risulta evidente che focalizzare l’attenzione su contenuti dolorosi farebbe scattare le risposte di difesa impedendo il processo di accoglienza, di accettazione e di elaborazione, centrali in un percorso di mindfulness centrato sul disagio. Abbiamo però la possibilità di influenzare la regolazione vagale sul cuore di una persona spaventata, esponendo la neurocezione del suo sistema nervoso a quegli indizi di sicurezza in grado di riportare l’attività del suo stato fisiologico entro i limiti della finestra di tolleranza. Si può dire che le frequenze sonore, caratterizzate dalle qualità descritte, promuovano nella persona una sorta di “piattaforma neurale favorevole” sulla quale non solo sarà possibile instaurare un’efficace relazione terapeutica, ma che potrà predisporre il paziente/cliente all’ascolto dei contenuti dolorosi emergenti senza che vengano innescate le risposte di difesa (Ogden, 2016, Porges, 2018). La musicoterapia mindful può raggiungere il circuito viso–cuore anche in persone traumatizzate o in stato di ansia e che inizialmente non tollerano il contatto oculare con il terapeuta, inducendo in loro uno stato fisiologico regolato dal vago mielinizzato che produce il senso di sicurezza, così necessario per il processo di elaborazione. Sentirsi al sicuro rappresenta la chiave che fa scattare la serratura la quale impedisce alla persona di coinvolgersi a livello relazionale e di accogliere le proprie sensazioni somato-sensoriali e gli stati emotivi connessi (Porges, 2014).

Il processo di co-regolazione emotiva tra il paziente/cliente e il musicoterapeuta, promuove l’opportunità di ottimizzare le capacità di autoregolazione attraverso i cosidetti esercizi neurali, che consistono in rotture transitorie e riparazioni dello stato fisiologico, grazie al supporto del coinvolgimento sociale, ovvero della relazione. Il canto rappresenta un potente esercizio neurale, in quanto richiede lente espirazioni mentre vengono controllati i muscoli della faccia e della testa per produrre le vocalizzazioni modulate, coinvolgendo anche i muscoli dell’orecchio medio per l’ascolto. Durante la fase espiratoria, quando si emette il suono, le fibre ventro-vagali incrementano l’impatto sul cuore che rallenta la sua frequenza, mentre l’inspirazione rimuove il “freno vagale”, aumentando l’attività simpatica sul centro di regolazione del battito cardiaco. Il processo del canto favorisce l’esercizio dell’intero sistema di coinvolgimento sociale integrato. Simili esercizi mirano all’acquisizione della capacità di mantenere la sensazione di sicurezza anche in assenza di indizi rassicuranti provenienti da un’altra persona (Porges, 2018).

La mindfulness richiede uno stato di non giudizio che è incompatibile con l’attività degli stati di difesa, in quanto la valutazione (e quindi il giudizio) risulta fondamentale per la sopravvivenza. Se non ci sentiamo sicuri, abitiamo uno stato giudicante e difensivo finchè non ci sarà data la possibilità di reclutare i circuiti che supportano il coinvolgimento sociale.  Quando, in una relazione, la persona è in grado di accedere facilmente al circuito viso-cuore tramite interazioni faccia a faccia, diventa libera di  mobilizzarsi, senza deviare in risposte di attacco/fuga (attivazione simpatica), e di immobilizzarsi durante comportamenti legati alla riproduzione, al parto, all’allattamento e all’amore (attivazione dorso-vagale). Questo meccanismo potenzia le capacità di resilienza della persona, rendendola più flessibile e capace passare da uno stato fisiologico all’altro riuscendo a riportarlo all’interno della finestra di tolleranza. Tale competenza ci permette di accogliere quei contenuti emotivi impliciti, i quali, essendo caratterizzati principalmente da componenti non-verbali, potranno venire espressi ampiamente attraverso la musica.

 

In conclusione, cosa può darci la Mindful Music Therapy?

Può darci la possibilità di ascoltare il nostro corpo come facciamo con una canzone, può darci la possibilità di suonare una melodia o un ritmo per raccontare chi siamo, può darci la possibilità di cantare per dare voce a quello che non riusciamo a dire, può dare la possibilità di respirare per calmare il nostro cuore, ci da la possibilità di sentire l’altro e di percepire (o meglio, di “neurocepire”) che possiamo fidarci, Qui e Ora.

 

Bibliografia

  1. O. Benenzon, L. Casiglio, M. E. D’Ulisse, Musicoterapia e professione tra teoria e pratica, Il Minotauro, 2005.
  2. Betz, Dein Weg zut Selbst-Liebe, Mit Mut zur Veränderung deine Wahrheit leben, Gräfe&Unzer, 2016.

E.Blundon, RE Gallagher, LM Ward, Electrophysiological evidence of preserved hearing at the end of life, Scientific Reports, 10 (1), 1-13, 2020.

  1. Paanskepp, L. Biven, Archeologia della mente. Origini neuro evolutive delle emozioni umane,Raffaello Cortina Editore, 2014.
  2. J. Siegel, La mente relazionale.Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, Raffaello Cortina Editore, 2013.
  3. J. Siegel, Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina Editore, 2009.
  4. W. Porges, Methods and systems for reducing sound sensitivities and improving auditory processing, behavioral state regulation and social engagment behaviors, United States Patent, 10, 029.068 B2, 2018.
  5. W. Porges, La teoria polivagale. Fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione, e dell’autoregolazione, Giovanni Fioriniti Editore, 2014.

S.W. Porges, La guida alla teoria polivagale. Il potere trasformativo della sensazione di sicurezza, Giovanni Fioriti Editore, 2018.

  1. Ogden, J. Fisher, La psicoterapia senso motoria. Interventi per il trauma e l’attaccamento, Raffaello Cortina Editore, 2016.

[1] La teoria polivagale fornisce un importante contributo per comprendere la visione psicotraumatologica della realtà clinica, proponendo una prospettiva nuova di lettura delle problematiche psichiche. La teoria estende la tradizionale visione del sistema nervoso autonomo secondo il funzionamento antagonista tra vie simpatiche e parasimpatiche, a un modello tripartito, nel quale il sistema parasimpatico viene suddiviso in due vie vagali (ventrale e dorsale) che originano in due aree differenti del tronco encefalico. I tre circuiti sarebbero ordinati secondo una gerarchia filogenetica: 1. dorso-vagale 2. simpatico 3. ventro-vagale, in cui i sottosistemi fisiologici reagiscono alle situazioni difficili in ordine invertito rispetto alla loro storia evolutiva, in modo coerente con il principio di dissoluzione (Porges, 2018).

 

[2] Il nervo Vago è il decimo nervo cranico di dodici paia e rappresenta la principale componente del sistema nervoso parasimpatico. Il Vago funziona come un canale che contiene le vie motorie efferenti che originano nel nucleo ambiguo e nel nucleo dorsale del Vago, e le fibre sensoriali afferenti che terminano nel tratto solitario. Il Vago connette le aree del tronco encefalico con le strutture lungo il corpo, inclusi il collo, il torace, l’addome e diversi organi viscerali. La teoria Polivagale enfatizza i cambiamenti filogenetici del sistema nervoso autonomo nei vertebrati e si focalizza sul peculiare cambiamento delle vie motorie vagali (detti efferenti speciali) che si è verificato con la comparsa dei mammiferi. La teoria Polivagale enfatizza anche che, in certe condizioni di minaccia di vita, specifiche vie vagali che normalmente supporterebbero l’omeostasi e la salute, possono rispondere a livello difensivo e inibire le funzioni legate alla salute. (Porges, 2018).

 

[3] Esiste un modello di risposta vagale che non è coerente con le responsabilità legate alla salute, alla crescita e al recupero delle energie che sono state associate al Vago e al sistema nervoso parasimpatico per decenni. Il sistema di difesa vagale (detta sincope vaso-vagale), che si manifesta attraverso l’immobilizzazione da spegnimento, è stato spesso ignorato dalla letteratura. L’inclusione del sistema di difesa vagale sfida il modello tradizionale di antagonismo appaiato in cui la componente simpatica supporta i comportamenti attacco/fuga e compete con la componente parasimpatica che supporta la salute, la crescita e il recupero delle energie. Questa visione propone una riconcettualizzazione delle reazioni adattive del sistema nervoso autonomo le quali sarebbero organizzate secondo una gerarchia filogenetica. Le due componenti del nostro Vago rispecchiano le caratteristiche delle estremità dell’evoluzione del sistema nervoso autonomo nei vertebrati.

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